La fondatrice
Lia Varesio nasce a Torino nel 1945 da una famiglia di forti tradizioni cattoliche. Il padre, allora presidente della San Vincenzo de’ Paoli, la coinvolge ancora bambina nelle attività di aiuto ai più bisognosi.
Di quei momenti d’infanzia Lia mantiene un ricordo vivissimo: “Ricordo che nella nostra cucina mia madre aveva una macchina da cucire che usava tutto il giorno per fare rudimentali sacchetti di stoffa. Quando mio padre tornava a casa, portava spesso con sé enormi sacchi di riso, che venivano divisi in tanti sacchetti più piccoli da portare alle famiglie bisognose nelle soffitte. Ricordo una sera in cui siamo andati a portare il riso in una famiglia in cui c’era una marea di bambini. Un bimbo piccolissimo dormiva in un cassetto del guardaroba; mio padre aveva posato il suo cappello su una specie di mobile. Quando è stata l’ora di uscire non l’abbiamo più trovato. Il papà dei bambini ha chiesto: «Chi ha preso il cappello al signore?». Si è fatto avanti uno e ha detto: «L’ho preso io perché tu non ce l’hai!». Mio padre lasciò il cappello in quella soffitta”.
Durante la giovinezza la sua attenzione agli altri viene esercitata in parrocchia, dove dà una mano alla mensa per i poveri, segue gli ammalati e gli anziani, collabora con una missione di Capoverde. Nel frattempo trova lavoro in Fiat, come impiegata, nell’assistenza sociale: si occupa dei poveri che scrivono alla Fondazione Agnelli, cercando di rispondere al meglio alle loro richieste.
È proprio una mattina andando al lavoro che accade un episodio capace di cambiarle la vita: “Mentre camminavo per strada mi sono imbattuta in una donna scalza, scarmigliata, con mani e piedi laccati di rosso, che urlava. Sono rimasta sconvolta, non tanto perché lei urlava ma perché la gente scappava via terrorizzata. Mi sono chiesta «Scappi anche tu?» e mi sono data la risposta. Mi sono avvicinata e le ho chiesto «Perché gridi cosi?». La risposta è stata «Grido al mondo la mia disperazione ma nessuno si ferma». La salutai: «Sono Lia»; mi disse che si chiamava Ester, era uscita dal manicomio e nessuno si era preso cura di lei; erano tre giorni che non mangiava. Vicino c’era un bar che conoscevo perché ci andavo ogni tanto, invece di andare al lavoro ho telefonato in Fiat e mi sono presa un giorno di ferie. Quando ci siamo sedute al tavolo del bar la donna ha cominciato a mangiare cornetti e cappuccini, intanto mi ha raccontato la sua storia. Era stata in manicomio, adesso era per strada, andava a mangiare al Cottolengo e dormiva alla stazione. Io l’accompagnai al Cottolengo e poi a Porta Nuova dove mi fece incontrare gli altri, i suoi amici, gli abitanti della stazione”.
Da quel giorno nasce ancora più forte in Lia il desiderio di conoscere queste persone, di parlare con loro, di capire, di aiutare. Ne parla al fratello e a un gruppo di amici e con loro prende l’abitudine di andare a trovare questa gente, portando bevande calde, cibo, coperte, all’inizio solo a Porta Nuova, poi anche nelle altre stazioni, infine le “ronde” in giro per la città. Una sera d’inverno del 1980 manca all’appello uno dei soliti, Bartolomeo, lo cercano nei posti consueti, non lo trovano. Decidono di andare a vedere nel centro storico, fra i ruderi di una vecchia casa. Non lo trovano neanche lì, stanno per andarsene quando Lia inciampa in un mucchio di stracci, quando si rialza si accorge che da quel mucchio di stracci spuntano un piede ed una gamba. È Bartolomeo, morto di freddo e di stenti nel cuore della città. Si fortifica quella sera la necessità di continuare il cammino intrapreso e viene così fondata dopo breve tempo l’associazione “Bartolomeo & C.”
In quegli anni sindaco della città è Diego Novelli. Lia lo convince ad accompagnarla nei suoi giri notturni, lui, conquistato da tanta determinazione, la chiama a lavorare in comune, all’ufficio dei senza fissa dimora. Dal 1986 al 1990 lavora anche nelle carceri di Corso Vittorio e delle Vallette come assistente volontaria penitenziaria. In quegli anni frequenta la Scuola di Cultura religiosa diocesana, è anche componente della Commissione diocesana per la sanità e l’assistenza. “Sono laica, ma credente, il mio impegno è un atto di fede in Dio in favore degli uomini”. Nel 1994 va in pensione e inizia a dedicarsi a tempo pieno alle attività della Bartolomeo & C. Negli anni viene aperto un dormitorio, la sede si allarga, il numero degli utenti cresce. Così come cresce anche la fama di Lia. Nel 1994 le viene assegnato il “Lion d’oro” dai Lions Club di Torino «per l’attività di soccorso materiale e spirituale che da 14 anni sviluppa in Torino, operando per le strade a favore di un’umanità emarginata, porgendo a barboni, alcolisti, tossicodipendenti l’ultima speranza per riemergere da una vita disperata», nel 1996 il “Premio Bruno Caccia” del Rotary International «per la dedizione dimostrata con pluriennale opera, faticosa e pericolosa, di assistenza verso barboni, tossicodipendenti, alcolisti, malati psichici ed emarginati in genere», il 1997 è l’anno del “Premio Bogianen” del Centro Congressi della Camera di commercio «per la generosità e l’entusiasmo ampiamente manifestati nel realizzare interventi di sostegno per particolari categorie di persone in difficoltà», fino all’onorificenza più prestigiosa, quella di Cavaliere della Repubblica Italiana, conferitale nel 2005 dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi, per l’opera sociale di aiuto ai poveri.
Negli ultimi anni, nonostante i problemi di salute e i frequenti ricoveri, la sua attenzione resta sempre rivolta agli altri. Dei momenti passati in ospedale ricorda: “Soprattutto la sera, quando tutto era in silenzio, le mie emozioni erano tutte rivolte all’ascolto dei malati che telefonavano ai loro cari, a qualche persona amica…quanto bisogno di contatti umani! Si raccontavano, ed è proprio questo che a volte manca. Non siamo più capaci di raccontarci, abbiamo troppa fretta e non riusciamo a sentire i gemiti di chi soffre. Passiamo accanto alla gente e non ci accorgiamo di loro, dei loro bisogni. Devo dire che ho trovato tanta solidarietà attorno a me, ma ho scoperto anche tanta solitudine e disperazione. A volte è sufficiente una parola, un gesto, un sorriso e le persone possono guarire psicologicamente e uscire dal loro autismo. Ed è proprio questo che mi stimola ad andare avanti e continuare a lavorare per uomini e donne della città che non hanno ancora trovato spazio, cure, dignità, attenzione, giustizia e solidarietà”.
L’undici marzo 2008, circondata dall’affetto del fratello e degli amici, Lia muore, all’Ospedale Mauriziano, mentre risuonano nelle orecchie di tutti le parole che tante volte aveva pronunciato: “Non dobbiamo fare da spettatori ma chiederci cosa stiamo facendo concretamente per gli altri. Se il nostro fratello non ce la fa da solo a portare la croce noi abbiamo il dovere di aiutarlo. È ora di smetterla di essere spettatori. Occorre diventare protagonisti attraverso il nostro impegno concreto e quotidiano”.
La sua storia e quella di molti amici da lei aiutati negli anni, sono raccontate nel libro Dalla parte degli ultimi: Lia Varesio e la Bartolomeo & C, acquistabile in versione cartacea o digitale sulle principali piattaforme online (per informazioni potete contattare i nostri uffici).